Raccontiamo la nostra corte, noi, bimbe di Fibbiani

Corte Fibbiani è in via Boboli: il nome della via, probabilmente, deriva dal padre di Sara che gestiva una mescita di vini in cima alla via, all’ incrocio con lo Stradone (via Sarzanese, ora via G. Puccini). Il padre di Sara si chiamava per l’appunto Boboli.
Corte Fibbiani comprendeva la corte racchiusa dalla muraglia (sulle mappe catastali detta Mennetto), la parte nord e parte di via Vecchi Pardini.

Si presume che il primo nucleo della corte (forse risalente a fine 1600/inizio 1700) sia quello racchiuso dalla muraglia e sia consistito in un’unica costruzione in quanto le finestre, i tetti e i solai sono alla stessa altezza e la soffitta era unica per tutto l’edificio.
A sud del grande casamento c’erano stalle e capanne racchiuse anch’esse da una muraglia; l’entrata della corte era chiusa da un grande cancello di ferro tenuto da due bellissime colonne di pietra in cima alle quali c’erano i lampioni a gas, che venivano accesi la sera da un omino (inviato dal Comune?).

Nella corte dentro la muraglia veniva la macchina del grano, si battevano i fagioli e, precedentemente, si lavorava canapa e lino. La pavimentazione della corte era fatta di mattoni davanti alle case, di pietra di Matraia fino alle capanne.
Le capanne avevano le mandolate.

Secondo le nostre ricerche il casamento descritto apparteneva alla famiglia Pardini: Vincenzo, Giocondo (nato 1825), Carlo (nato 1856), Giorgio (1901), Lucia Rosa (nata 1948).

Il terreno intorno era coltivato a grano, avena, granturco e fieno; nelle stalle mucche vitelli cavalli.

Per i maiali c’era lo stallino a sud-est della corte; per galline e conigli pollai e gabbie.

Gli escrementi dei maiali, insieme a quelli umani, venivano raccolti nella grande fogna in muratura di pietra, alta e capiente, adiacente alla corte, che conservava il perugino di tutta la zona circostante per la concimazione dei campi.


Le famiglie erano numerose e nel tempo hanno poi costruito altre case sul lato nord dando vita alla seconda corte racchiusa da un muricciòlo (da molte di noi chiamato murìcciolo).

Sul lato ovest, accanto a via Boboli c’era una bella pompa che veniva azionata da una lunga leva e dava acqua a tutta la corte. Nei primi anni 6o del Novecento fu sostituita da quella nella foto qui sotto, azionata da una ruota.

Gina e Marisa alla pompa, a destra una ragazzina (Mimma)

Quante volte ci siamo dissetate
alla tua acqua
ridenti, sudate
dopo le corse, i giochi, le palline
che ci sporcavan ginocchia e manine.
Ognuna a turno era svelta a pompare
e spingere la leva per donare
all’amica quell’acqua di fontana
che avrebbe fatto cantare una rana!
A volte si aiutavano le donne
che sciacquavan fazzoletti e gonne
e avevano bisogno di più mani
per strizzare pezzuole e asciugamani.
Aver la pompa a portata di mano
era un lusso e noi lo sfruttavamo:
Nei campi “lei” non c’era
ma i bimbetti
avevan sempre l’acqua dei fossetti!

Come attività femminile si ricorda anche che nel secolo XIX le donne allevavano i bachi da seta sui cannicci nutrendoli con le foglie dei numerosi gelsi della zona e tenendoli al caldo in seno dentro un sacchettino di tela bianco.

Nella corte dentro la muraglia e anche nella parte nord adiacente a via Vecchi Pardini (precedentemente chiamata via Cavalletti) veniva la macchina del grano che lavorava giorno e notte, si battevano i fagioli secchi ; precedentemente si lavoravano canapa e lino.

Massaia

Per lavare i panni si usava la conca in terracotta o la massaia in ferro zincato con sotto un fornello a carbone che faceva bollire pian piano tutta l’acqua con la biancheria spandendo intorno un buon profumo di lisciva e sapone di Marsiglia.
La lavorazione durava molte ore e si concludeva il giorno dopo quando per il risciacquo si portavano i panni al Fossetto o al lavatoio di Pistelloni servendosi di una pruetta.

Nella corte c’era una vita spirituale e religiosa che comprendeva le processioni, il Maggetto, i bei presepi del Peschiera e del Torselli e l’accensione di un bel quadro della Madonna sul muro a nord della casa dei Peschiera, in via Vecchi Pardini, quando c’erano occasioni particolari (di gioia o di dolore) per gli abitanti della corte.

Ogni tre anni la processione del Corpus Domini si fermava a Fibbiani (lato nord): sulla facciata della casa centrale veniva allestito un altissimo altare di tre piani da un paratore di San Paolino e alle finestre della corte e della strada teli rossi.

Per terra una bellissima fiorita rendeva più gentile il percorso e molti ricordano il pollaio di Arturo e Italia che veniva tolto per l’occasione!

Il Maggetto veniva fatto in casa del Peschiera ed era sempre affollato e pieno di bambine con gli zoccoletti.

Durante la seconda guerra mondiale in via Boboli e in corte Fibbiani abitavano antifascisti, partigiani e liberatori di Lucca come Pardini Alfonso, Mencacci Alberto ( i loro nomi sono incisi su una lapide vicino al ponte dei Frati a Pontetetto, sull’Ozzeri) e anche altri.
Anche le donne aiutarono e nascosero figli, fratelli e mariti dai tedeschi e dai fascisti: il fratello di Lucia Rosa, Sergio Pardini, raccontava di una fogna di loro proprietà dove si nascondevano gli uomini, che lui ragazzino, cospargeva di terra per nasconderla e nel caso i tedeschi avessero avuto i cani, avrebbe dovuto spargervi sopra anche il bottino. Nella casa di Sergio funzionava una radio che trasmetteva le informazioni di Radio Londra: nella dolcissima foto qui sotto si intravede in alto a destra.
Le donne della corte se si accorgevano di fascisti o tedeschi vicini urlavano: “Maria, vieni a casa!” E questa frase voleva significare che gli uomini si dovevano nascondere, nella fogna o in altri sicuri rifugi.

Delle donne vogliamo tenere i nomi, belli e antichi: Zelinda, Albertina, Uliena, Elia, Bruna, Lida, Dora(2), Edilia, La Meri, La Geny, Leda, Elvira, Irene, Dantina, Ines, Teresa, Primetta, Pia, Nara, Matilde, Emma, Gina(2), Ilva, Nella, Fosca, Beppina, Dina che nella corte hanno abitato e cresciuto i figli, nutrito tutti i familiari con grandi sacrifici (e quasi mai è stato riconosciuto il loro impegnativo lavoro e la loro forza d’animo).

Da loro siamo nate noi, una speranza di futuro dopo le traversie della guerra, noi che riempimmo la corte di canti e giochi, che si giocava con la palla al muro ( Uno, senza muoversi, senza ridere, con un piede, con una mano, a picchietto, davanti e dietro, barauffite, patatine! ), con le palline di coccio poi di vetro, con altalene improvvisate, col tamburello (specie in spiaggia a Viareggio) e con l’hula hoop che avemmo in dono da una Befana dei primi anni sessanta del Novecento, a rimpiattino (all’infinito), a cucire vestitini alle bambole, noi che si andava a fare il merendino nei campi dietro le case, alla Casina del Bisordi e al fiume a bagnarci e a lavarsi insaponate dalle mamme e dalle zie, a goderci le salite dei poggi e le discese, sdraiate nell’erba e nei fiori che ci davano i loro odori indimenticati.