Chi è il mio prossimo?

 

 

Il Vangelo della Liturgia odierna narra la parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37); tutti la conosciamo. Sullo sfondo c’è la strada che da Gerusalemme scende a Gerico, lungo la quale giace un uomo picchiato a sangue e derubato dai briganti. Un sacerdote di passaggio lo vede ma non si ferma, passa oltre; lo stesso fa un levita, cioè un addetto al culto nel tempio. «Invece un Samaritano, – dice il Vangelo – che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (v. 33). Non dimenticare queste parole: “ne ebbe compassione”; è quello che sente Dio ogni volta che vede noi in un problema, in un peccato, in una miseria: “ne ebbe compassione”. L’Evangelista tiene a precisare che il Samaritano era in viaggio. Dunque, quel Samaritano, pur avendo i suoi programmi ed essendo diretto a una meta lontana, non trova scuse e si lascia interpellare, si lascia interpellare da ciò che accade lungo la strada. Pensiamoci: il Signore non ci insegna a fare proprio così? A guardare lontano, alla meta finale, mettendo tuttavia molta attenzione ai passi da compiere, qui e adesso, per arrivarvi.

È significativo che i primi cristiani furono chiamati “discepoli della Via” (cfr At 9,2) cioè del cammino. Il credente infatti somiglia molto al Samaritano: come lui è in viaggio, è un viandante. Sa di non essere una persona “arrivata”, ma vuole imparare ogni giorno, mettendosi al seguito del Signore Gesù, che disse: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Io sono la via: il discepolo di Cristo cammina seguendo Lui, e così diventa “discepolo della Via”. Va dietro al Signore, che non è un sedentario, ma sempre in cammino: per la strada incontra le persone, guarisce i malati, visita villaggi e città. Così ha fatto il Signore, sempre in cammino.

Il “discepolo della Via” – cioè noi cristiani – vede perciò che il suo modo di pensare e di agire cambia gradualmente, diventando sempre più conforme a quello del Maestro. Camminando sulle orme di Cristo, diventa un viandante, e impara – come il Samaritano – a vedere e ad avere compassione. Vede e ne ha compassione. Anzitutto vede: apre gli occhi sulla realtà, non è egoisticamente chiuso nel giro dei propri pensieri. Invece il sacerdote e il levita vedono il malcapitato, ma è come se non lo vedessero, passano oltre, guardano da un’altra parte. Il Vangelo ci educa a vedere: guida ognuno di noi a comprendere rettamente la realtà, superando giorno dopo giorno preconcetti e dogmatismi. Tanti credenti si rifugiano nei dogmatismi per difendersi dalla realtà. E poi ci insegna a seguire Gesù, perché seguire Gesù ci insegna ad avere compassione: ad accorgerci degli altri, soprattutto di chi soffre, di chi ha più bisogno. E di intervenire come il Samaritano: non andare oltre, ma fermarsi.

Davanti a questa parabola evangelica può capitare di colpevolizzare o colpevolizzarsi, di puntare il dito verso altri paragonandoli al sacerdote e al levita: “Ma questo o quello vanno avanti, non si fermano!”, oppure di colpevolizzare sé stessi enumerando le proprie mancanze di attenzione verso il prossimo. Ma io vorrei suggervi un altro tipo di esercizio. Non tanto quello di incolparci, no; certo, dobbiamo riconoscere quando siamo stati indifferenti e ci siamo giustificati, ma non fermiamoci lì. Lo dobbiamo riconoscere, è uno sbaglio, ma chiediamo al Signore di farci uscire dalla nostra indifferenza egoistica e di metterci sulla Via. Chiediamogli di vedere e avere compassione. Questa è una grazia, dobbiamo chiederla al Signore: “Signore che io veda, che io abbia compassione, come Tu vedi me e Tu hai compassione di me”. Questa è la preghiera che oggi suggerisco a voi: “Signore che io veda, che io abbia compassione, come Tu vedi me e hai compassione di me”. Che abbiamo compassione di coloro che incontriamo lungo il cammino, soprattutto di chi soffre ed è nel bisogno, per avvicinarci e fare quello che possiamo per dare una mano.

Tante volte, quando mi trovo con qualche cristiano o cristiana che viene a parlare di cose spirituali, io domando se fa l’elemosina. “Sì”, mi dice – “E, dimmi, tu tocchi la mano della persona alla quale dai la moneta?” – “No, no, la butto lì.” – “E tu guardi gli occhi di quella persona?” – “No, non mi viene in mente.” Se tu dai l’elemosina senza toccare la realtà, senza guardare gli occhi della persona bisognosa, quella elemosina è per te, non per lei. Pensa a questo: “Io tocco le miserie, anche quelle miserie che aiuto? Io guardo gli occhi delle persone che soffrono, delle persone che aiuto?” Vi lascio questo pensiero: vedere e avere compassione.

La Vergine Maria ci accompagni in questo cammino di crescita. Lei, che ci “mostra la Via”, cioè Gesù, ci aiuti anche a diventare sempre più “discepoli della Via”.

Papa Francesco, Angelus del 10 luglio 2022

 


Orario SS. Messe:

  • Giorni feriali ore 18.30
  • Sabato e vigilia delle feste ore 19
  • Festivo ore 8.30, 10.30, 12 – Ore 18 in Auditorium

Il sabato, dalle ore 10 alle ore 12, Adorazione Eucaristica

In questo orario i preti sono a disposizione per celebrare il
Sacramento della Riconciliazione.
Per celebrare il sacramento della Confessione è possibile anche contattare i preti:
Don Paolo 347 3002895 – Don Francesco  347 8804368


 

La vostra pace scenderà su di lui

 

 

L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 10,1-12.17-20) presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32). Così questo invio prefigura la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo a tutte le genti. A quei discepoli Gesù dice: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!» (v. 2).

Questa richiesta di Gesù è sempre valida. Sempre dobbiamo pregare il “padrone della messe”, cioè Dio Padre, perché mandi operai a lavorare nel suo campo che è il mondo. E ciascuno di noi lo deve fare con cuore aperto, con un atteggiamento missionario; la nostra preghiera non dev’essere limitata solo ai nostri bisogni, alle nostre necessità: una preghiera è veramente cristiana se ha anche una dimensione universale.

Nell’inviare i settantadue discepoli, Gesù dà loro istruzioni precise, che esprimono le caratteristiche della missione. La prima – abbiamo già visto –: pregate; la seconda: andate; e poi: non portate borsa né sacca…; dite: “Pace a questa casa”…restate in quella casa…Non passate da una casa all’altra; guarite i malati e dite loro: “è vicino a voi il Regno di Dio”; e, se non vi accolgono, uscite sulle piazze e congedatevi (cfr vv. 2-10). Questi imperativi mostrano che la missione si basa sulla preghiera; che è itinerante: non è ferma, è itinerante; che richiede distacco e povertà; che porta pace e guarigione, segni della vicinanza del Regno di Dio; che non è proselitismo ma annuncio e testimonianza; e che richiede anche la franchezza e la libertà evangelica di andarsene evidenziando la responsabilità di aver respinto il messaggio della salvezza, ma senza condanne e maledizioni.

Se vissuta in questi termini, la missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia. E come finisce questo passo? «I settantadue tornarono pieni di gioia» (v. 17). Non si tratta di una gioia effimera, che scaturisce dal successo della missione; al contrario, è una gioia radicata nella promessa che – dice Gesù – «i vostri nomi sono scritti nei cieli» (v. 20). Con questa espressione Egli intende la gioia interiore, la gioia indistruttibile che nasce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a seguire il suo Figlio. Cioè la gioia di essere suoi discepoli. Oggi, per esempio, ognuno di noi, qui in Piazza, può pensare al nome che ha ricevuto nel giorno del Battesimo: quel nome è “scritto nei cieli”, nel cuore di Dio Padre. Ed è la gioia di questo dono che fa di ogni discepolo un missionario, uno che cammina in compagnia del Signore Gesù, che impara da Lui a spendersi senza riserve per gli altri, libero da sé stesso e dai propri averi.

Invochiamo insieme la materna protezione di Maria Santissima, perché sostenga in ogni luogo la missione dei discepoli di Cristo; la missione di annunciare a tutti che Dio ci ama, ci vuole salvare e ci chiama a far parte del suo Regno.

Papa Francesco, Angelus del 7 luglio 2019

 


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Santi Pietro e Paolo, apostoli

 

Tu sei Pietro, e a te darò le chiavi del regno dei cieli (Mt 16,19)

 

Il Vangelo della Liturgia odierna, solennità dei Santi Patroni di Roma, riporta le parole che Pietro rivolge a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). È una professione di fede, che Pietro pronuncia non sulla base della sua comprensione umana, ma perché Dio Padre gliel’ha ispirata (cfr v. 17). Per il pescatore Simone, detto Pietro, fu l’inizio di un cammino: dovrà in effetti passare molto tempo prima che la portata di quelle parole entri a fondo nella sua vita, coinvolgendola interamente. C’è un “apprendistato” della fede, che ha riguardato anche gli apostoli Pietro e Paolo, simile a quello di ognuno di noi. Anche noi crediamo che Gesù è il Messia, il Figlio del Dio vivente, ma occorrono tempo, pazienza e tanta umiltà perché il nostro modo di pensare e di agire aderisca pienamente al Vangelo.

Di questo, l’apostolo Pietro fece esperienza immediatamente. Proprio dopo aver dichiarato a Gesù la propria fede, quando Lui annuncia che dovrà soffrire ed essere condannato a morte, rifiuta questa prospettiva, che considera incompatibile con il Messia. Si sente addirittura in dovere di rimproverare il Maestro, il quale a sua volta lo apostrofa: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» ( v. 23).

Pensiamoci: non succede lo stesso anche a noi? Noi ripetiamo il Credo, lo diciamo con fede; ma davanti alle prove dure della vita sembra che tutto vacilli. Siamo portati a protestare col Signore, dicendogli che non è giusto, che ci devono essere altre vie, più diritte, meno faticose. Viviamo la lacerazione del credente, che crede in Gesù, si fida di Lui; ma nello stesso tempo sente che è difficile seguirlo ed è tentato di cercare strade diverse da quelle del Maestro. San Pietro ha vissuto questo dramma interiore, ed ha avuto bisogno di tempo e di maturazione. All’inizio inorridiva al pensiero della croce; ma alla fine della vita testimoniò il Signore con coraggio, fino al punto di farsi crocifiggere – secondo la tradizione – a testa ingiù, per non essere uguale al Maestro.

Anche l’apostolo Paolo ha il proprio percorso, anche lui è passato attraverso una lenta maturazione della fede, sperimentando momenti di incertezza e di dubbio. L’apparizione del Risorto sulla via di Damasco, che da persecutore lo rese cristiano, va vista come l’avvio di un percorso durante il quale l’Apostolo ha fatto i conti con le crisi, i fallimenti e i continui tormenti di quella che chiama “spina nella carne” (cfr 2 Cor 12,7). Il cammino di fede non è mai una passeggiata, per nessuno, né per Pietro né per Paolo, per nessun cristiano. Il cammino di fede non è una passeggiata, ma è impegnativo, a volte arduo: anche Paolo, divenuto cristiano, dovette imparare ad esserlo fino in fondo in maniera graduale, soprattutto attraverso i momenti di prova.

Alla luce di questa esperienza dei santi apostoli Pietro e Paolo, ognuno di noi può domandarsi: quando professo la mia fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, lo faccio con la consapevolezza di dover sempre imparare, oppure presumo di “aver già capito tutto”? E ancora: nelle difficoltà e nelle prove mi scoraggio, mi lamento, oppure imparo a farne occasione per crescere nella fiducia verso il Signore? Egli infatti – scrive Paolo a Timoteo – ci libera da ogni male e ci porta in salvo nei cieli (cfr 2 Tm 4,18).
La Vergine Maria, Regina degli Apostoli, ci insegni ad imitarli avanzando giorno per giorno nella via della fede.

Papa Francesco, Angelus del 29 giugno 2022

 


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Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

 

Tutti mangiarono a sazietà (Lc 9,17)

 

«Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11,23), istituì il Sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue. Le parole dell’apostolo Paolo ci riportano alla circostanza drammatica in cui nacque l’Eucaristia. Essa porta indelebilmente inscritto l’evento della passione e della morte del Signore. Non ne è solo l’evocazione, ma la ri-presentazione sacramentale. È il sacrificio della Croce che si perpetua nei secoli. Bene esprimono questa verità le parole con cui il popolo, nel rito latino, risponde alla proclamazione del «mistero della fede» fatta dal sacerdote: «Annunziamo la tua morte, Signore!».

La Chiesa ha ricevuto l’Eucaristia da Cristo suo Signore non come un dono, pur prezioso fra tanti altri, ma come il dono per eccellenza, perché dono di se stesso, della sua persona nella sua santa umanità, nonché della sua opera di salvezza. Questa non rimane confinata nel passato, giacché «tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi».

Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente e « si effettua l’opera della nostra redenzione ».
Questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Gesù Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti. Ogni fedele può così prendervi parte e attingerne i frutti inesauribilmente.

Questa è la fede, di cui le generazioni cristiane hanno vissuto lungo i secoli. Questa fede il Magistero della Chiesa ha continuamente ribadito con gioiosa gratitudine per l’inestimabile dono.

Desidero ancora una volta richiamare questa verità, ponendomi con voi, miei carissimi fratelli e sorelle, in adorazione davanti a questo Mistero: Mistero grande, Mistero di misericordia. Che cosa Gesù poteva fare di più per noi? Davvero, nell’Eucaristia, ci mostra un amore che va fino «all’estremo» (cfr Gv 13,1), un amore che non conosce misura.

Giovanni Paolo II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia, 11

 


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Un mistero svelato

 

Anrej Rublev – Trinità

Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità (Gv 16,13)

 

Davanti alla Trinità, a Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, un solo Dio, in tre persone, noi dobbiamo riconoscere di trovarci di fronte al Mistero: il mistero più profondo, una realtà troppo grande e troppo bella per essere compiutamente abbracciata e compresa.
E tuttavia, una volta ammessa l’incapacità della nostra mente di avventurarsi da sola per scandagliare questa verità che la supera, non possiamo fare a meno di rilevare che questo Mistero è del tutto particolare.
Infatti, se proprio si deve parlare Mistero bisogna aggiungere che abbiamo a che fare con un Mistero “svelato”, “manifestato”, non occulto: è questo che l’apostolo Paolo costantemente ci ricorda.

Dio ha rivelato la sua identità e ci ha convocati non attorno a un concetto o a un ideale etico: egli ha manifestato il suo volto in Gesù Cristo, il suo Figlio fatto uomo. In lui Dio ha svelato il suo progetto d’amore: raggiungere ogni uomo e ogni donna, di ogni tempo e di ogni luogo, per offrirgli misericordia e grazia e rigenerarlo a una esistenza nuova.

Nel Figlio noi possiamo riconoscere il Padre, che lo ha mandato a noi, per la nostra salvezza: non per giudicare o condannare, ma per strappare al potere del male, del peccato e della morte. Da lui ci viene il dono dello Spirito, l’altro Consolatore, colui che sostiene i discepoli e permette loro di affrontare senza paura anche il tempo della persecuzione e della prova.

È lo Spirito che ci guida “alla verità tutta intera”, cioè ci introduce progressivamente nel mistero di Dio, in questa relazione in cui noi riceviamo la sua stessa vita e veniamo trasfigurati dalla sua presenza.

Anche questo è fondamentale e non può essere dimenticato: la Trinità non è solo mistero da contemplare, mistero svelato, ma anche, e soprattutto, mistero da vivere, esperienza che trasforma, relazione che cambia la storia di ognuno.
Accogliendo la Parola di Dio, ricevendo la sua grazia attraverso i santi sacramenti, soccorrendolo nei poveri che incontriamo, noi partecipiamo al suo Amore e entriamo in una pienezza sconosciuta, che trabocca nell’eternità.

È questo Amore che è stato “riversato nei nostri cuori”; è a questa sorgente che siamo chiamati ad attingere per estinguere la nostra sete; è a questa Comunione che siamo invitati. Quanto accade nel tessuto dei nostri giorni è dunque del tutto straordinario: essere “Figli di Dio” infatti, non è una cosa da poco.
Liberati dalla paura, guariti dalla fragilità, noi veniamo immersi in un oceano di luce e di pace.

 


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Il Consolatore

 

Giotto – Pentecoste (Cappella Scrovegni)

Pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Paraclito (Gv 14,16)

 

Il compito che Gesù affida ai suoi discepoli è immenso, enorme il carico che mette sulle loro spalle.
Spropositato per le loro forze, per lo loro capacità. Nessuno di loro, a quanto sembra, aveva appreso da qualche rabbino erudito una competenza biblica a tutta prova. Nessuno di loro era stato formato alle tecniche sofisticate che permettevano di affrontare senza paura qualunque discussione pubblica.

Perché Gesù affida proprio a questa compagnia mal assortita il futuro della sua missione, quella che gli era costata fatiche e sudore, lacrime e sangue, la sua stessa vita? Gesù li conosce bene, nel profondo: sa decifrare i loro entusiasmi e le loro fragilità, la loro grettezza (quando cercano i primi posti) e la loro fede in lui.
Per questo non si limita ad affidare loro un compito che ha del sovrumano, ma li mette nelle mani dello Spirito Santo. Sarà lui a guidarli, a sostenerli, a difenderli dalle insidie. Toccheranno con mano la sua azione, ne riconosceranno l’opera.
Rimarranno sorpresi di fronte alle novità inattese che egli preparerà. E così saranno vaccinati dal peccato più grande: il peccato dell’orgoglio e della presunzione. Non potranno dire che è tutto merito loro quello che sta accadendo, perché si conoscono bene e sanno che c’è un Altro che opera attraverso di loro e anche nonostante i loro limiti.

Ma allora Gesù non chiede nulla ai suoi discepoli?
Sì, domanda loro di amarlo veramente. Non di un amore che si nutre di parole, di dichiarazioni, di promesse, ma di un amore concreto, coi fatti: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti.”

Oggi Gesù fa ancora la stessa proposta a tutti quelli che vogliono essere suoi discepoli, a tutti quelli che vogliono imbarcarsi nell’avventura del Regno di Dio.
Ci manda al largo, nel mare aperto della storia, su piccole imbarcazioni che sembrano fatte apposta per naufragare. Ci chiede di amarlo, con tutto il cuore, veramente. E ci dona il suo Spirito. E stranamente, miracolosamente, quelle piccole barche fragili portano dovunque il seme buono del Vangelo.

 


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Orizzonti nuovi

 

Ascensione – Giotto, Cappella degli Scrovegni

Veniva portato su, in cielo (Lc 24,51)

 

Quella di oggi non è una festa come le altre. Non è casuale, infatti, che nell’opera di Luca essa faccia da cerniera tra il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. In effetti costituisce un “compimento” e, nello stesso tempo, un inizio.
È come se gli orizzonti si aprissero e noi, assieme agli apostoli, potessimo entrare in una esperienza nuova, originata da una nuova consapevolezza. Gesù, la Chiesa, il destino dell’umanità e la prospettiva che segna la sua storia appaiono improvvisamente in una luce nuova e tutto questo è la fonte di una gioia sconosciuta che nasce dalla certezza di trovarsi dentro un piano di salvezza e di amore.

Riguardo a Gesù: con l’Ascensione egli non si allontana dai suoi, anzi. Ora la sua presenza, non più fisica, può raggiungere ogni uomo e ogni donna di ogni tempo e di ogni luogo. E’ diversa, certo, ma nello stesso tempo è profonda e universale. La sua vicenda non rimane circoscritta in un momento della storia e al piccolo lembo di terra della Palestina. La sua umanità entra in modo irreversibile nella gloria di Dio: per esercitare la sua signoria, il Crocifisso risorto assume un ruolo unico, motivato dalla offerta che ha fatto di se stesso sulla croce.
Con l’Ascensione, dunque, ogni cosa assume il suo senso: i trent’anni della sua vita nascosta a Nazaret, i tre anni del ministero fecondo di parole e di gesti di bontà, l’evento drammatico della sua passione e morte, il fatto inaspettato della sua Risurrezione.
È come se le mille tessere della sua esistenza terrena si ricomponessero in un mosaico splendido, in cui ognuna di esse brilla di una luce nuova grazie al compimento di questo percorso di grazia.

Riguardo alla chiesa: essa non è chiamata a vivere ripiegata su se stessa, nella memoria di ciò che è accaduto nel passato. Gli apostoli sono inviati in missione: lo Spirito gli accompagnerà. Attraverso la Spirito la comunità rimane in comunione profonda con il suo Signore e ne sperimenta il potere, la forza.

Riguardo all’uomo e al suo destino: il Cristo che entra nella gloria di Dio mostra qual è il traguardo della nostra esistenza. Non una sfioritura inevitabile col venire meno delle forze, ma una pienezza che ci attende con lui, nell’eternità.
Pensare l’uomo e la storia in grande, secondo il cuore di Dio, significa diventare fin d’ora cittadini del cielo.

 


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Osserverà la mia parola

 

Lo Spirito che il Padre manderà nel mio nome (Gv 14,26)

 

Dobbiamo prenderne atto, sono molti più di un tempo quelli che, oggi, prendono abitualmente in mano la Sacra Scrittura per intendere la Parola di Dio. Se è vero che la “pratica” rituale è in costante diminuzione, è altrettanto vero che questo aspetto, non secondario per la fede cristiana,
registra una crescita costante. E non solo a livello individuale.

Sono molte le parrocchie nelle quali sta diventando una “tradizione” il ritrovarsi insieme, un giorno alla settimana per leggere e riflettere sulle letture della domenica, per coglierne il significato in profondità e per scambiare le proprie esperienze.
Gli anni del post-concilio hanno visto il moltiplicarsi di incontri biblici, a causa di una autentica “sete” di Sacra Scrittura: erano molti i laici che avvertivano il bisogno urgente di “saperne di più”, di conoscere quel libro che è una luce per ogni autentico discepolo di Gesù.

Oggi sembra di cogliere una “domanda” un po’ diversa: non si cerca solamente una “cultura biblica”, ma si vuole trovare un collegamento tra la Parola di Dio e la propria vita quotidiana.
Tutto questo non può che rallegrarci. Probabilmente siamo ancora distanti da quella consuetudine con la Bibbia che caratterizza i nostri fratelli delle chiese nate dalla Riforma protestante, ma è già benefico questo desiderio di una vita cristiana sostenuta, illuminata, guidata dalla Parola.

Nel vangelo di questa domenica, Gesù lo afferma esplicitamente: “Se uno mi ama osserverà la mia Parola”. L’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo. E può generare un terribile equivoco.
Con quale Dio ci rapportiamo, se non siamo disposti ad accogliere quello che egli ci ha rivelato di se stesso? Con quale Gesù vogliamo entrare in relazione se non siamo disposti a riflettere sui Vangeli?
La Parola di Dio ci apre la strada a un rapporto autentico con Gesù e con il Padre. Una Parola, naturalmente, accolta nello Spirito, con un cuore che ama.
Se questo avviene, allora sperimentiamo qualcosa di indicibile: “Io e il Padre mio – ci dice Gesù –verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.


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La vera novità

 

Giotto, Ultima cena – Cappella degli Scrovegni

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri (Gv 13, 34)

 

Il contesto bel brano evangelico di questa domenica è solenne e drammatico. La passione e la morte incombono già, e tutta via Gesù si fa avanti in modo sorprendete con l’atteggiamento di chi è disposto a donarsi fino in fondo, per amore.
Quello che chiede ai suoi, in effetti, lui per primo lo sta vivendo.

E’ l’amore a muoverlo: la sorgente è nel rapporto che lo lega al Padre, in quella relazione di amore che lo porta a compiere in ogni momento la sua volontà.

E’ l’amore a ispirare ogni sua azione e ogni sua parola. Per amore Gesù si fa servo, per amore accetta di prendere su di sé il peccato nel mondo. Per amore spezza la sua vita come un pane, versa il suo sangue, perché nasca un’Alleanza nuova e l’umanità sia strappata al potere del male.

Dobbiamo riconoscerlo: c’è una logica nuova che emerge in tutto questo. Noi siamo soliti associare la gloria alle immagini del successo, della potenza, della forza. Per Dio le cose sono del tutto diverse. La vera gloria, quella che Dio rivela nel suo Figlio, è l’amore. E questo richiede di farsi piccoli, poveri, spesso di soffrire, talvolta destinati a essere calpestati, oppressi.

A coloro che vogliono seguirlo, che desiderano diventare suoi discepoli, Gesù chiede di entrare in questa logica nuova e pone anche la misura: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Un amore totale, offerto a tutti, fino all’ultimo, fino a donare la vita.

Questa infatti è la vera novità. Ecco perché il cristianesimo non può ridursi ad accettare la situazione esistente, i rapporti di forza presenti nella società, le logiche e le scelte considerate scontate.
Esso induce a essere figli di un mondo nuovo, di quel mondo che Dio si impegna a costruire con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.


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Una relazione che trasforma

 

Io do loro la vita eterna (Gv 10,28)

 

Pochi versetti, quelli che ci riserva il Vangelo di questa domenica. A campeggiare è l’immagine del “buon Pastore”.

Essa serve a far emergere ciò che risulta decisivo nella vita di un cristiano. Ce lo fanno rilevare quei tre verbi che delineano una relazione profonda che interviene tra Gesù e i discepoli.

È lui, Gesù, a prendere l’iniziativa, lui che rivolge a ogni pecora la sua voce. Gesù non si limita a trasmettere degli insegnamenti: egli ci fa intendere la sua voce. Anche questa, però, potrebbe venire sommersa dal frastuono che ci circonda, da tanti altri segnali e da tante altre voci che rischiano di coprirla. “Ascoltare” non è dunque un’operazione automatica.
Implica attenzione, desiderio, attesa. Richiede l’atteggiamento di chi è disposto ad accogliere la voce che lo raggiunge.

È proprio a questo punto che fa capolino il verbo “conoscere”: il buon Pastore che ha chiamato con la sua voce, ora fa nascere un rapporto profondo tra lui e ognuno di noi. Non è chiamata in causa solo la ragione, ma tutto l’essere: mente e cuore, volontà e corpo.

Entriamo così nel campo dell’amore, un amore smisurato, contrassegnato da un dono straordinario: “io do loro la vita eterna”. Non un’esistenza qualsiasi, ma una pienezza che sgorga dalla partecipazione alla vita stessa di Dio. Quando accade questo incontro, la persona viene radicalmente trasformata nel profondo. Prove, difficoltà, addirittura persecuzioni non mancheranno, ma il discepolo ha la certezza che nulla e nessuno riuscirà a “strapparlo” dalla mano del Padre.

Poteva esserci un Vangelo più bello di questo per parlare della “vocazione”?

Si prova cosa vuol dire essere “conosciuti” nel profondo, cioè amati e accolti, nonostante le proprie debolezze. Perché il requisito per seguire Gesù non è una particolare competenza o alcune risorse che si possiedono, ma la disponibilità a lasciarsi amare e a rispondere all’amore con l’amore. Con la semplicità di chi si affida a Colui che ha aperto la strada e sa che in qualsiasi frangente può contare sempre sul suo amore e sulla sua misericordia.


Habemus Papam

Il nuovo Papa, che ha assunto il nome Leone XIV, è il cardinale Robert Francis Prevost, 69 anni, originario di Chicago, eletto l’8 maggio al quarto scrutinio del conclave,  diventando il 267º successore di Pietro e il primo Papa nato negli Stati Uniti .

 

Nato il 14 settembre 1955 a Chicago da una famiglia di origini francesi, italiane e spagnole, Robert Prevost è cresciuto in un ambiente multiculturale. Dopo aver conseguito una laurea in matematica e una in filosofia alla Villanova University, ha intrapreso la vita religiosa nell’Ordine di Sant’Agostino, prendendo i voti nel 1981 e venendo ordinato sacerdote nel 1982.
Nel 1982 ha anche conseguito il Master of Divinity presso la Catholic Theological Union di Chicago.
In Italia, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, ha studiato diritto canonico ottenendo il dottorato magna cum laude.

La sua vocazione missionaria lo ha portato in Perù, dove ha servito come parroco, docente e amministratore in diverse comunità, affrontando anche periodi di instabilità politica e sociale . Nel 2015 è stato nominato vescovo di Chiclayo, incarico che ha ricoperto fino al 2023.

La stima di Papa Francesco nei confronti di Prevost è stata evidente: nel 2023 lo ha chiamato a Roma per guidare il Dicastero per i Vescovi e la Pontificia Commissione per l’America Latina, affidandogli ruoli chiave nella selezione dell’episcopato mondiale. Nello stesso anno, è stato creato cardinale.

Nonostante non fosse tra i favoriti, Prevost è emerso come candidato di consenso grazie alla sua esperienza pastorale, alla discrezione e alla capacità di mediazione. Durante il conclave, ha ottenuto un ampio sostegno, culminato nella sua elezione al quarto scrutinio.

Il significato del nome “Leone”
Lo spiega il Papa stesso, nell’incontro del 10 maggio con i Cardinali:
Diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII, con la storica Enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale; e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro.

Nel suo primo discorso dalla Loggia delle Benedizioni, Papa Leone XIV ha invocato la pace e la riconciliazione, sottolineando l’importanza di una Chiesa che ascolta e accoglie. Ha espresso gratitudine per l’eredità di Papa Francesco e ha promesso di proseguire nel cammino di rinnovamento spirituale e pastorale.